Un grido di gabbiani, uno stormire di foglie e un freddo pungente. Entrare in quel luogo era come entrare in un’altra dimensione dove il tempo pareva essersi fermato. Sbarre di un cancello che si aprono, sbarre che si chiudono e tu rimani immobile in attesa che qualcuno ti dia il via libera; così per quattro, cinque, sei volte, il tutto scandito da tacchi decisi di uomini di legge. Poi la fine del tunnel e uno spiraglio di luce. Su per le scale le celle(anche se preferisco camere), tutt’ attorno muri scrostati dal prosciugarsi del tempo e corrimano traballanti dalla rabbia azzittita. Sembra di essere in uno di quei film americani, gli enormi palazzoni defenestrati, i quartieri malfamati dove c’è sempre qualche sacchetto che vola al soffio del vento. Poi il silenzio, totale. In cima alle scale le stanze, vuote, non c’è nessuno, se ne sono tutti andati, chi al lavoro, chi all’università. Un libro di diritto internazionale poggia sopra un letto con il pile arancione e una matita intralcia le pagine del libro, i passaggi obbligati in vista dell’esame. Qualche metro più in là la stanza di un ragazzo, italiano, iscritto alla facoltà di Scienze Politiche, ha il poster del Che affisso alla porta.