Il solo pensiero che Indi, se, anziché nascere in Inghilterra, fosse nata in Italia, a quest’ora possa essere viva, fa rabbrividire. E il solo pensiero che ad aver celebrato osannatamente la morte, nell’ “interesse” della bimba, siano proprio quelli che predicano inclusione uguaglianza e riconoscimento dei diritti di tutti, fa ancora più rabbrividire. Anzi no. Che dico. Mi fa immensamente schifo. In tutta la vicenda della povera Indi Gregory, non c’è solo l’Inghilterra ad aver dato prova dei suoi immensi disvalore e squallore. Ma ci sono anche alcuni politicanti da salotto Made in Italy, che non hanno perso tempo a staccare la testa alla povera creatura e usarla come trofeo per le loro battaglie ideologiche.
Indi Gregory è morta.
Se n’è andata la notte del 13 novembre all’ 1.45. Se n’è andata nella fredda stanza di un ospizio, nonostante i genitori avessero, per favore chiesto – per favore vi scongiuro Dio mio – di farla morire a casa. Come a dire: se dovete decidere della vita o della morte di nostra figlia. Se vi sentite così talmente onnipotenti da sostituirvi a Cristo, almeno nostra figlia fatela morire a casa. A casa nostra. Con le sue cose. Con noi. Con le nostre angosce. Con le nostre paure. Con i nostri ricordi di 8 mesi, pensando a una vita che non sarà più la stessa. Ma non c’è stato verso. Al mondo c’è un’autorità cosi talmente potente, che si chiama magistratura, che si chiama Stato, che si arroga il diritto di decidere se puoi vivere o morire. Lo Stato che si fa Dio, lo Stato che si impersona in Gesù Cristo, lo Stato che si crede Dio onnipotente. Al mondo c’è un’autorità così talmente potente che si sente investita del potere di decidere se una piccola creatura di nemmeno un anno debba lasciare questo mondo. E c’è qualcosa di immensamente e inconcepibilmente diabolico nel pensare che ci sia un imperio che decida chi debba vivere o morire. Che decida chi debba respirare o farne a meno. Che decida quando staccare la spina per mandarti dall’altra parte. Che decida di trattare la vita come fosse un orologio a cucù regolando il meccanismo e togliendo le batterie, quando, secondo loro, non “serve” più. E fa rabbrividire questa magistratura che si crede di poter comandare e regolare il mondo e si erge a finta paladina del bellissimo mistero della vita e arriva dove non dovrebbe arrivare. Sputa sentenze. Semina morti. La vita di una creatura rimane appesa a battaglie ideologiche, a scontri giuridici, mediatici, ripugnanti, vere e proprie mannaie che sgozzano creature innocenti in virtù del dio scienza. Del dio magistrato. Di chi si sente onnipotente e non è niente. Il padre di Indi, povero, ha lottato. Ha lottato come un cane randagio che non mangia da giorni e fino alla fine insieme alla moglie. Ha lottato come un leone, senza saper che fare, nella Siberia dei valori, ha visto il suo angelo spegnersi tra le braccia della donna che ama e che l’aveva messo al mondo, ma non è stato in grado di lottare contro un mostro che voleva che Indi se ne andasse e al più presto. Il governo italiano ha detto: “Tranquilli, lo prendiamo noi il vostro angelo. Non vi promettiamo guarigione. Ma vi garantiamo cure. Ce ne prenderemo cura”. La cura. La cura che c’è anche quando ti arriva un pacco e ci sta scritto “maneggiare con cura”. Ma Indi per lo stato inglese era peggio di un pacco. È stata trattata come qualcosa di cui sbarazzarsi senza sensi di colpa. E in tutta questa presuntuosa lotta di poter decidere la vita e la morte, il bene e il male, di poter trattare la vita come fosse accendere o spegnere la luce, c’è chi non ha perso tempo, aggiungendo schifo allo schifo. Dinanzi alla concessione della cittadinanza alla piccola creatura a cui i giudici hanno inflitto la pena di morte, qualche talebano dell’accoglienza ha gridato: “Allora diamo la cittadinanza a tutti i figli di immigrati”. Così. Per cavalcare squallidamente la propria battaglia, si è pronti anche a prendere la testa di una neonata e sventolarla in piazza. Così Indi è morta. E loro l’hanno ammazzata due volte.
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