La prima volta che vidi Roma erano anni fa. Qualcosa come il 1900 di cui ora non ricordo le ultime cifre.
Ricordo che quel giorno pioveva. Pioveva che Iddio la mandava.
Quando scesi dall’autobus, che mi accompagnava, rimasi subito impressionata dalla magnificenza della città. Splendida. Particolare. Suscitava una tale ammirazione che era impossibile resisterle.
La sua bellezza ti accecava. Il suo incanto ti stravolgeva.
Il primo giorno non vidi molto. Diluviava troppo. Il secondo nemmeno. Il terzo, la mattina, riuscì a fare un giro veloce prima di ripartire.
Passai davanti l’Altare della Patria e rimasi estasiata di così tanta e tracotante meraviglia.
Uno splendore incastonato nel bianco, disarmante, immane, immenso, che non ti dà la capacità di esprimerti a pieno.
Ti senti così piccolo. Lì decisi che quello sarebbe stato il mio monumento, il mio monumento in assoluto. Ero così incantata nel vedere quel tricolore sventolare, quelle guardie in piede immobili, che parevano mummie e quelle fiammelle che lentamente bruciavano e facevano sventolare l’aria. Rimasi sbalordita dal fatto che il fuoco si muovesse e le guardie no.
Ero piccola, ma nemmeno tanto, ero già in grado di scegliere cosa avrei voluto e cosa no. Avrò avuto all’incirca 13 anni, forse 12, 11, ora non lo ricordo esattamente. Era uno di quei viaggi organizzati, dove capisci che se vuoi vedere il mondo ti ci devi in qualche modo infilare e infatti mi ci sono infilata. Lì scoprì anche cosa fosse il palazzo di giustizia, il palazzaccio come lo chiamò la guida che ci accompagnava. Una professoressa di storia dell’arte molto scrupolosa e molto severa. Era di una tale magrezza che mi chiedevo come facessero a starci tutte le informazioni che possedeva.
Mi piaceva Roma, Dio se mi piaceva, da quel giorno decisi che sarebbe diventata la mia città più bella del mondo, e lo è, lo è per davvero…
sbetti






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