
Inutile che ci giriamo attorno. Ci sono tanti lavori che gli italiani non vogliono più fare. Mica da oggi. Da mo’. Si sono convinti che fare il cameriere a Londra sia più chic che farlo in Italia.
Nel Belpaese poi un cameriere è un poveraccio che tira a campare, per cui se gli va bene, gli danno otto euro l’ora per raccogliere su le bucce delle arance degli altri, inumidite degli sputacchi di gente rozza e trozzalona che si affoga nella bolgia di aperitivi gratuiti.
Un medico bravo invece, sempre italiano, è una persona altamente specializzata e preparata a cui diamo ben volentieri un calcio nel culo spedendolo all’estero, dove gli danno ben volentieri oltre a un dignitoso stipendio anche vitto e alloggio.
In quanto se sei bravo, la meritocrazia non è cosa nostra.
Il risultato è la migrazione degli italiani all’estero e l’immigrazione selvaggia nelle nostre coste.
I migranti invece, quelli bravi, quelli che vengono in Italia per lavorare non possono farlo.
Ecco perché 👇
Il mio pezzo su
Su La Ragione
Luigi è costretto a spazzare per terra perché non trova un italiano o un indiano che lo faccia al posto suo. Si sveglia ogni mattina alle cinque. Lavora 16 ore al giorno per cercare di mandare avanti i due ristoranti che ha a Jesolo nel litorale veneto. Quest’anno non trova personale. Non trova nessuno che gli possa dare il cambio e che voglia prendere la scopa in mano. Li chiamano gli introvabili. Un discorso trito e ritrito ma che merita di capirne i germi. Nella sola provincia di Venezia già a maggio scorso mancavano 25 mila lavoratori stagionali. Mancano cuochi camerieri chef. Mancano italiani indiani bengalesi tunisini egiziani marocchini. Se prima della pandemia le “osterie veneziane“ ricevevano quintalate di curriculum a settimana, ora non c’è uno straccio di nessuno che si presenti sulla porta e ti dica: “Mi faccia lavorare. Sono senza lavoro. Sto cercando. Ho bisogno”. “Merito” del reddito di cittadinanza distribuito con notevole clemenza, dei giovani che pretendono di più, del fondoschiena sul divano, del lavoro in nero, o del fatto che durante la pandemia uno dei mestieri più mazziati è stato proprio quello che si consuma all’interno dei locali. Quello di quando la gente si diverte e il tuo lavoro è far divertire gli altri. E del fatto che certi lavori poi gli italiani non li vogliono più fare. Commessi, camerieri, pastori, agricoltori? No grazie. Già a maggio scorso la Coldiretti aveva lanciato un appello per “velocizzare il rilascio dei nulla osta necessari per consentire agli extracomunitari di poter arrivare in Italia per lavorare nelle imprese agricole”. Monito seguito a ruota da Confindustria: “Ci diano più extracomunitari, ci servono”. Così Lega e Fratelli d’Italia hanno detto: “Ok, ma prima di far lavorare i migranti, perché non prendete quelli col reddito di cittadinanza?”. Anche perché far lavorare gli stranieri è impresa assai complessa. Un mese fa Guido Crosetto aveva twittato che “per un problema informatico al ministero dell’Interno è bloccato il decreto flussi e (denuncia di Coldiretti) si rischia di non poter raccogliere la frutta!”. Perché se si bloccano le assunzioni, il raccolto va a marcire. Un settore quello dell’agricoltura dove la manodopera estera è fondamentale. Ma ai profughi i primi due mesi non è consentito far niente. Per avere uno straccio di permesso di soggiorno che consenta di faticare i tempi sono infiniti. E intanto le mele diventano nere. “Ci piscia la luna” si dice al mio paese (Marche). “Noi abbiamo persone nelle comunità straniere che vorrebbero lavorare”, mi ha detto un giorno Ernesto Pancin, il direttore degli esercizi pubblici Venezia, “ma non possono perché il visto turistico non lo consente”. La soluzione è che gli italiani col culo al fresco tornino a raccogliere i pomodori. Pardon le mele.
Serenella Bettin
