Una mattina mi sveglio. Apro Facebook. E ci sta l’appello di una mia amica. Era settembre. Settembre di quest’anno.
Allora l’appello comincia così: “Parlarne è una decisione sofferta. Ma poiché dite spesso che la mia scrittura arriva a tutti e sono certa che ci sia un estremo bisogno di sensibilizzazione, mi sono convinta a farlo. (…). Stanotte sono stata paralizzata dal dolore, indomabile, non riconducibile a qualcosa di concreto. Una notte insonne e frustrante, in seguito alla quale andare a lavorare sarebbe stato impossibile per chiunque. Si chiama FIBROMIALGIA e accompagna la vita di alcune persone che rimbalzano per anni da uno specialista all’altro, curando sintomi superficiali e senza mai poter arrivare a una rimozione delle cause. Coinvolge ogni singola parte del corpo: muscoli, fibre nervose, intestino, equilibrio psicologico. È un attentato perenne alla realizzazione professionale e alla serenità relazionale. Ma anche alle finanze, perché espone a rischi di licenziamento e fa spendere un patrimonio in terapie. Sparisce e riappare in modo infido: basta un momento di stress o un cambiamento repentino di temperature. In Italia solo il Trentino l’ha riconosciuta come causa di invalidità, nelle altre regioni se ne discute e il sistema sanitario offre piccoli e ottimistici spiragli”.
Poi continua: “Non sono alla ricerca di commiserazioni. Anzi, ogni forma di vittimismo rappresenta una vittoria per questo mostro impietoso. Voglio però che se ne parli, che coloro che vengono considerati eterni malati immaginari non si sentano più soli, che i medici prestino più attenzione ai sintomi e che, prima o poi, si possa usufruire almeno di una serie di esenzioni per permettersi tutti i trattamenti che potrebbero migliorare la qualità della vita. E quella delle persone che ci stanno intorno”.
Allora io che mi ero appena alzata e l’avevo appena letto, finisco di fumare la mia sigaretta, leggo. Rileggo. Rileggo un’altra volta e le scrivo. Apro Messenger e le invio un messaggio in privato.
Lei mi risponde subito e mi dice sentiamoci, se ti va una di queste sere ti chiamo. Io le dico certo ma poi come sempre accade ci si passa di mente, si pensa di poterne fare a meno, ci si convince che si possa anche forse non parlarne e così un giorno, poco prima dell’ora di pranzo, prendo e la chiamo.
La chiamo. Le chiedo come sta. E mi faccio raccontare, chiedendo permesso, il suo sentire. Il suo essere. Il suo avere questa cosa addosso, che non ti scrolli di dosso. Il suo tormento. La sua malattia.
Allora mi dice che non è una malattia riconosciuta. Che in Italia solo il Trentino lo ha fatto. Che sottopone a visite su visite senza che vi sia cura alcuna. E che le causa problemi al lavoro.
Per questa malattia la mia amica non può andare a lavorare, deve prendersi ferie, le vengono attacchi di panico, anche al supermercato, temendo sempre possa accadere il peggio.
“Molti pensano sia una malattia psicosomatica- mi dice – ma vi posso assicurare che non è così”. O molti pensano che siccome i sintomi non si vedono, allora tu non sia malato.
Allora le chiedo quali sono i sintomi. E lei mi dice che prova dolore non capendo da che parte proviene. Prende una parte del corpo, fino a estendersi, manca l’aria, la gente fa confusione, si hanno crisi che non si risolvono immediatamente. Per questa malattia uno é costretto ad assentarsi dal lavoro, a perdere soldi, a non portare a casa la pagnotta; per questa malattia uno è costretto a dipendere dagli altri, a non potersi muovere da soli, a pensare sempre che possa accadere il peggio anche se si sa che il peggio non accade. E poi le visite. Le cure. Le terapie. I farmaci. Quelli costosi. Quelli che se non vai a lavorare perché non puoi, ma come tiri a campare. Allora lei mi dice che in quei momenti ha paura. Che non sa che fare. Che razionalmente sa che non accadrà niente, ma che quando ci si trova dentro è più forte di lei. Così io le dico che c’è una sottile linea rossa, che non si dovrebbe mai oltrepassare. Sì insomma quando ti capitano queste cose te la devi immaginare dentro la tua testa, figurartela davanti agli occhi, e non permettere mai a te stessa di oltrepassarla, di andare oltre. Ma qui. Qui parliamo di malattia. Qui parliamo di una causa invalidante, che non viene riconosciuta a livello statale. Malati invisibili. Malati immaginari li chiamano.
Perché allora ieri quando ho scritto questo pezzo su Micol Rossi mi è venuta in mente la mia amica, e mentre Micol mi parlava ho provato a immaginare quanto brutto sia per una persona non essere capita, a volte non essere nemmeno spiegata, perché non si sa cosa sia. Eppure c’è. Eppure esiste. Eppure vive dentro di te e non ti abbandona. Malattia cronica la chiameranno. Il che vuol dire che te la porterai dentro per sempre. Ma non per questo non vuol dire che tu non possa combattere. Che tu non possa lottare. Che tu non possa imparare a conviverci e diventare più forte anche più della malattia. Solo che in uno Stato dove la salute è un diritto di tutti, si dovrebbe riconoscere e tutelare la salute di tutti quanti. I soldi per la ricerca. L’inclusione. I progetti del lavoro da casa come sta facendo Micol con DreamWarriors. L’esenzione. Le visite convenzionate. Dovrebbero esserci tutti questi strumenti in uno Stato che pretende di essere democratico anche nella salute. Perché la salute è un diritto di tutti. Non solo di chi pare a voi.
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